Il concreto valore del bello

Marco Lazzarato

Oggi se l’idea del bello non è un astratto tema filosofico, ma un concreto valore per un intero sistema produttivo, bisognerebbe in questa sede essere un po’ più concreti, cercando di fissare  alcuni concetti utili alla prassi.

Sul piano filosofico bello è ciò che coinvolge l’intelletto per le sue qualità intrinseche di proporzione, compiutezza, armonia, misura, eccetera, piacevole invece è ciò che si limita alla mera stimolazione sensoriale. Il “mi piace” è quindi opinabile, perché frutto di sensazioni/gusti individuali, il bello, invece, se non oggettivo, è comunque argomentabile perché coinvolge le qualità intellettive della persona. Va da sé, quindi, che lanciare un intero settore produttivo sul “mi piace” è come giocare alla lotteria: si può aver fortuna e trovare il prodotto con la forma che “piace” a tutti, ma non vi è nessuna garanzia che il prodotto successivo abbia lo stesso successo e consenta al produttore di mantenere le stesse quote di mercato. Ciò che piace qui, non necessariamente piace là, e ciò che piace oggi  può non piacere domani, eccetera.

Dato che le qualità intellettive sono equamente distribuite in tutti gli esseri umani, puntare sul “bello” invece significa avere come mercato potenziale l’intera umanità.

Oltre a ciò il valore attribuito agli oggetti “belli” permane nel tempo e consente ai produttori nostrani di mantenere i propri mercati e qualificarsi come poli di eccellenza, resistendo meglio alla concorrenza della manifattura a basso costo dei paesi emergenti (Thailandia, Messico, eccetera). Il “mi piace” attrae per la sua apparenza, il “bello” invece per la sua sostanza, che abbiamo detto derivare da qualità come l’ordine, la proporzione, la compiutezza della forma, eccetera. La bella forma quindi è l’opposto dell’informe e del deforme: la prima attrae costantemente per la sua armonia, le altre sul momento stimolano per la loro stranezza ma vengono subito a noia. Nell’immediato quindi queste ultime sembrano vincenti, ma nel medio e lungo periodo determinano la crisi del sistema che le produce: le “stupidaggini”, tutti sono capaci di farle, per cui non rappresentano un vantaggio competitivo fra distretti produttivi del “Made in Italy” e quelli asiatici, e, dati i tempi di crisi, i clienti le sopportano sempre meno.

Questo ovviamente per fissare alcuni punti di riferimento teorici, è chiaro che nella pratica i confini sono più sfumati: su un oggetto di pochi euro venduto al supermercato la ricerca del bello può essere fuorviante, ma per complementi d’arredo venduti a migliaia di euro discendere la china dello strano può essere molto pericoloso; fra questi due estremi vi sono innumerevoli casi intermedi in cui “bello” e “mi piace” devono trovare la loro giusta proporzione nelle definizione della forma.

Tornando alla bella forma, questa trae le proprie virtù dalla buona forma, cioè una forma corretta, sia deontologicamente che metodologicamente, quindi ponderata, misurata, equilibrata, compiuta. La buona forma è il luogo della tradizione, dei saperi artigianali, della scuola, delle regole e dei canoni, insomma di tutto ciò che è necessario sapere per agire secondo le “regole dell’arte”. Se la bella forma è, per così dire, il premio al vincitore, la buona forma è l’allenamento quotidiano per potersi iscrivere alla gara e giocarsi i primi posti. La buona forma, proprio perché frutto di sapere, è quella che costruisce i distretti, legittima le scuole, crea le eccellenze, insomma genera e mantiene un sistema produttivo radicato sul territorio. Anche la buona forma, però, deve poggiare i piedi per terra e questi sono la giusta forma. Il Moderno ha eretto un tempio alla forma derivata dalla funzione (funzionalità) ma, come abbiamo spesso osservato, questa è solo metà del problema, l’altra è la funzione civile a cui l’oggetto è destinato: a parità di comodità (funzione propria) una sedia destinata ad un bar di periferia è cosa diversa da una destinata ad un hotel di lusso.

La giusta forma è quindi la base del sistema, il pre-requisito, quella senza la quale non si parte neppure ad ideare un manufatto e scaturisce da una simbiosi fra necessità funzionale che il manufatto deve assolvere, comodità, funzionalità, robustezza, eccetera, e ruolo civile che deve affrontare, che è quello del decoro, questione sulla quale siamo spesso intervenuti in questa rivista e che qui non riprendiamo. In conclusione quindi si può riassumere la questione in tal modo: risolto il doppio problema funzionale della giusta forma l’idea deve passare il vaglio della buona forma, solo così può concorrere alla bella forma, la quale non è automatica conseguenza, ma dovrebbe diventare l’ambizioso obiettivo di chiunque operi all’interno della manifattura artistica.